Jommetti Chiara

UNA SIRENA IN CARROZZINA: da trent’anni, Chiara Jommetti di Montegalda scrive libri, poesie, favole e dipinge stando immobile su una carrozzina. Fino a quando va al mare, dove accade un piccolo miracolo. Ha scritto ben 12 libri senza mai prendere in mano una penna. Disegna, compone poesie e fiabe, ricerca detti popolari ed è un’abile conoscitrice di fiori e piante selvatiche. Tutto questo, senza mai muoversi dalla sua carrozzina: “Beh, se ce la faccio io – commenta ironicamente Chiara – è proprio il caso di dire che ce la possono fare tutti!” Una questione di principio la sua, più che una possibilità fisica, considerando che Chiara Jommetti da 55 anni non sa cosa significhi camminare o scrivere e si muove quasi liberamente solo quando va in acqua. Tutto per colpa di una tetraparesi spastica infantile che la costringe a dipendere da due ruote: “Sì sono una disabile – risponde lei- che non può muovere liberamente nessun muscolo del corpo ma che trova la libertà nel cervello, nei pensieri e fantasia. Trattatemi dunque da donna normale – fa capire la Jommetti – ma non fatelo per farmi un favore, me ne accorgerei subito!” Ma non chiamiamola rassegnazione. Anzi, Chiara Jommetti non smette di stupire neanche di fronte alla schiettezza del nostro confronto a due.
– Guardando la tua data di nascita, 1948, si capisce che sei sempre stata costretta a stare in carrozzina.
«Cinquantacinque anni così non sono pochi, lo ammetto, ma la mia storia ha avuto una dolorosa svolta a 9 anni. Ero già affetta da tetraparesi spastica, malattia rara e poco conosciuta allora. Nei primi anni di vita avevo un certo equilibrio che mi permetteva di fare qualche passo, sorretta dai miei. Poi nel 1958 fui sottoposta a una operazione con la convinzione da parte dei medici di migliorare il mio assetto. Tutto filò liscio fino al momento in cui mi tolsero il gesso: una svista tecnica causò il dramma. Si dimenticarono che ero spastica; ebbi uno shock nervoso tanto che i miei muscoli si irrigidirono e mi ritrovai peggiorata, con nuovi e più fastidiosi problemi da affrontare, tra cui la perdita totale dell’equilibrio. Questo fu l’inizio e la fine dei miei problemi, considerando che non si tratta di una malattia degenerativa, quanto di una condizione di disabilità permanente. Da quel momento sapevo che sarei rimasta per sempre così come oggi sono».
– Un peggioramento che ti ha spinta alla disperazione?
«Non la chiamerei proprio così, anche se ci sono stati momenti duri, per me come per i miei genitori. Diciamo che da una parte ti abitui – non alla sfortuna s’intende – e cerchi di capire quale sia il disegno che sta sopra di te. Cominci col considerare le ruote della carrozzina come le tue gambe. Immagini che le mani degli altri diventino le tue mani. Come direste voi: sono inchiodata ad una sedia, ma la testa mi funziona a meraviglia»… 

– Intendi dire di poter essere automa solo con l’aiuto degli altri?

«Certo! So che non sarò mai in grado di essere autonoma e, forse, proprio per questo ne assaporo la bellezza e il profondo desiderio. Vuoi mettere quanto sia bello camminare a piedi nudi sulla spiaggia o sull’erba? Dio che emozione poterlo fare… Sono quelle piccole cose che diventano grandi traguardi proprio quando sai di non poterle avere. Vallo a spiegare a chi cammina liberamente quanto sia grande la sua fortuna. Vagli a dire a chi muore stupidamente, quanto sia magnifica la libertà di cui hanno abusato. Pensa solo a quanto sia incomparabile il valore di poter mangiare con le proprie mani. Il mio mondo non è tattile come il vostro, io vedo e sento ma non tocco. I miei pensieri sono le mie mani e piedi. Questi sì, camminano velocemente. La cosa che nelle mie condizioni diventa la più difficile, seppur spontanea, è il dover chiedere continuamente per piacere a chi mi sta a fianco. Ecco allora che, pur non realizzando nulla con le mie mani, rispondo sempre: questo l’ho fatto io . Non conta come, ma chi. Ovvero, lo spirito che metti nelle cose che fai. Chi mi aiuta sa che in quel preciso momento lui è solo un tramite, uno strumento tra il mio pensare e l’espressione pratica che si tratti di scrivere o disegnare».

– Eppure, hai una grinta e uno spirito che pochi possono vantare. Sei scrittrice, ricercatrice, pittrice e poetessa. Tutto questo lo fai solo per superare la tua condizione e sentirti viva?
«Va detto che allenare la mente vuol dire principalmente essere attivi dentro. Sono parte di questo mondo seppur in una forma diversa dalla normalità di cui siamo o siete abituati. Diciamo che, per molti versi, l’essere così mi ha offerto quella sensibilità in più che mi aiuta in molti campi. Se solo volessi sentirmi viva basterebbe che mangiassi ogni giorno, ma io voglio lasciare qualcosa di mio, di personale. Qualcosa che vada oltre i problemi legati alla mia fisicità».
– Tenace o caparbia?
«Poliedrica, potrei rispondere. Magari un pochino caparbia, tanto che tre anni fa sono riuscita a fare quello che non ho fatto quando ero giovane a causa della mia malattia. Senza far sapere niente ai miei, ho studiato da privatista e ho completato alla scuola media di Montegalda l’anno che mi mancava per conseguire il diploma di scuola media inferiore. Ho sostenuto come qualsiasi altro studente gli esami scritti grazie a dei professori di sostegno e poi gli orali. Il risultato è stato il titolo di studio a pieni voti. Quando ho ricevuto l’attestato, ho preparato un pacchetto e l’ho dato a mio padre come regalo, sapendo che si sarebbero aspettato di tutto, ma non di vedermi diplomata a cinquantacinque anni. Ho coronato un sogno che avevo nel cassetto e che in molti credevano avessi ormai dimenticato».
– Allora, mai dimenticare i sogni?
«Sarebbe un peccato, quanto un’occasione persa nella vita».
– Ma tu ti sei diplomata in terza Media, dopo aver scritto 11 libri?
«Abbiamo parlato di sogno! Dunque, tutto è possibile… In tutti questi anni ho scritto racconti, favole, poesie che sono poi diventati libri che ho pubblicato sostenendo tutti i costi di stampa e distribuzione, vendendoli a quel pubblico di affezionati e di amici che mi seguono da anni e conoscono la mia versatilità. La mia è stata una cultura autodidatta, sviluppata grazie alla costanza dei miei genitori, cui devo tutto quello che oggi sono. Soprattutto la ricchezza di stimoli che mi hanno offerto e che spaziano dalla botanica, con due pubblicazioni dedicate ai sentieri dei colli di Montegalda, alla narrativa per ragazzi con i libri di favole. Fino ai racconti autobiografici che in realtà altro non sono se non piccole raccolte di ricordi personali che ho rivisitato in chiave narrativa. L’ultimo libro, infatti, presentato il 15 giugno scorso a Montegalda, s’intitola “Un viaggio particolare” e tratta del mio periodo giovanile passato in reparto neurologico dell’ospedale psichiatrico per via della mia malattia che allora necessitava di cure specialistiche. Sono nate così 40 pagine di racconto, in cui spiego che la malattia è molto spesso vista dagli altri come una vergogna: niente di più sbagliato!».
– Una pila di libri che cresce ormai annualmente, tanto che presenti un tuo libro ogni uno o due anni. Un piacere o uno sforzo?
«Un piacere, ovvio! Adesso poi ho un nuovo compagno: il computer»…

– Basta scrivani? Ma anche il computer ha bisogno di mani!

«Giusto un anno fa la rivoluzione o, per meglio dire, l’arrivo nella mia vita di quello strumento che mi permette oggi di sentirmi più autonoma. Lo volevo da tempo, ma non trovavo la possibilità di adattare la tecnologia alle mie specifiche esigenze. Ci ha pensato il Centro “EFESTO” di Loreggia (Pd), che si occupa specificamente di adattare le tecnologia più avanzate alle diverse esigenze dei disabili».
«Sì, per me è stato un miracolo! Vedermi seduta con una cuffia a dare i comandi vocali per gestire autonomamente il computer. Da allora posso comunicare con il resto del mondo in maniera libera. Mando e-mail e sto preparando un sito tutto mio. Anzi, oggi direi che la tecnologia aiuta più che mai anche i disabili. Ci aiuta a essere autonomi, laddove l’autonomia per noi rimane un sogno impraticabile»…
– La tecnologia dunque, aiuta i disabili; ma certe mentalità attorno a voi fanno fatica a cambiare. Per questo serve l’anno internazionale dell’handicap?
«Le barriere architettoniche s’impara a superarle col tempo. Ma altre barriere, quelle sociali, sembrano molto più insormontabili. Ciò che intendo dire è che l’essere diversi e farti sentire diversa sono due facce di una stessa medaglia. Ma attenzione a chi ignora la nostra sensibilità. So di essere una disabile. Diverso, però, è sentirmi trattata da disabile. Soprattutto quando ti senti ripetere “poverina” o ti guardano con gli occhi lucidi e compassionevoli».
«Non a caso quest’anno è dedicato all’handicap. Peccato solo che quando si pensa a questo problema, insorga subito quel pietismo popolare che a noi fa più male che bene. Non si è ancora capito che noi fondamentalmente siamo persone potenzialmente normali. I nostri problemi tutti li possono vedere, mentre sono pochi coloro che vanno oltre e ci guardano dentro. È questo tipo di comprensione che migliora la nostra esistenza. E poi, chissà se bastano 365 giorni per ricordare che esistiamo?»

– C’è poi il mare. La tua seconda casa …
«È così: ho due case. Una però è straordinariamente grande. Sto parlando del mare e di quello spazio che riporta l’anima in armonia col corpo. È incredibile se s’immagina che una come me, che per mesi è costretta a rimanere immobile su una carrozzella, al solo sentire la parola mare è come se provassi un fremito di chi sente di tornare a casa. Da oltre cinquant’anni, trascorro al Lido delle Nazioni la mia estate. Lì avviene ciò che nessuno può immaginare. Mi portano in spiaggia e abbandono la carrozzina, grazie agli amici che m’immergono nell’acqua. Immancabilmente, quasi per magia, ritrovo quell’equilibrio che mi manca sulla terra. I muscoli si rilassano e inizio a fare movimenti che nessuno si aspetterebbe. È come se mi liberassi da un peso, lasciando il mio corpo sulla carrozzella per ritrovarmi in una condizione nuova di libertà o normalità».
– Come una sirena?

«Sì, come una di quelle figure fatate di cui parlo nei miei racconti. Ecco perché, quando vedo il mare è come se tornassi alla mia normalità. Sento che la grande anima blu del mare s’incontra con la mia. Una fusione di energie che ogni volta rigenera in me un piccolo miracolo». «Insomma, è come se ricaricassi le batterie. Ma il mare è anche un grande maestro per chi lo sa ascoltare. Peccato che oggi la stragrande maggioranza dei turisti finiscano sulla spiaggia con gli stessi ritmi dell’ufficio. Se solo questo loro camminare sulla rena, tra i flutti dell’acqua li portasse a guardarsi intorno e dire: “quanto sono fortunato”. Questo permetterebbe loro di perdere quella disattenzione tipica dei turisti per caso».
– “Guardarsi attorno”, è questo il tuo consiglio per l’estate?
«Non vuol essere una predica, semmai, un invito a pensare almeno per un momento al valore di quel vostro camminare. Talmente spontaneo, da perdere il suo valore di libertà. È come se la gente camminasse solo per induzione. Se solo ci pensassimo per un attimo, capiremmo che la vita non va in vacanza. E lo dico pensando ai tanti morti per le strade di ogni fine settimana… Riflettete su questa fortuna, voi che camminate! Anche così la vostra vacanza potrebbe essere a cinque stelle».